I geni guidano la cura dei tumori del sangue
Gestione mirata su base genetica delle neoplasie linfoidi.
L’obiettivo del gruppo di ricercatori e medici guidati da Robin Foà dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione di Giorgio Inghirami dell’Università degli studi di Torino, è studiare le caratteristiche genetiche e molecolari di leucemie e linfomi per trovare nuove armi nella lotta contro queste malattie, che oggi si collocano al terzo posto nella classifica dei tumori più frequenti. Le 84 persone coinvolte nel programma concentrano i loro sforzi in particolare sulla leucemia linfoblastica acuta, la leucemia linfatica cronica, il linfoma anaplastico a grandi cellule, i linfomi periferici a cellule T, il linfoma di Hodgkin e la leucemia a cellule capellute. Affiancano tecniche classiche e tecnologie all’avanguardia, senza mai dimenticare il vero protagonista della ricerca, il malato, e l’obiettivo, ossia la sua cura. Il programma, cui è stato anche dedicato un sito web si divide in due parti principali: nella prima si cercano nuove combinazioni di terapie “intelligenti” che vanno a colpire in modo mirato alcuni marcatori già noti per il loro ruolo nello sviluppo e la progressione di questi tumori, con lo scopo di diminuire la tossicità delle attuali terapie e di migliorare i risultati della cura. La seconda parte del programma si concentra invece sulla scoperta di nuovi possibili marcatori molecolari e si basa soprattutto sulla tecnologia WES (Whole exome sequencing) che consente di analizzare nel dettaglio la sequenza di tutti i geni che sono trascritti e danno origine a proteine. Da questa fine analisi molecolare possono emergere nuovi strumenti (per esempio specifici test) per classificare i tumori, per diagnosticarli precocemente e per capire se e come evolveranno e risponderanno alle terapie. L’ultimo obiettivo, non certo meno importante, è la progettazione di nuovi farmaci mirati diretti verso i bersagli individuati. Il fine è la creazione di protocolli terapeutici sempre più progettati su misura per le lesioni tumorali dei pazienti con neoplasie linfoidi.
Verso un trattamento “chemio free”
La leucemia linfoblastica acuta è al centro di diversi studi clinici portati avanti dai ricercatori coordinati da Robin Foà nel tentativo di arrivare a un trattamento che non preveda per alcuni sottogruppi di pazienti l’uso di chemioterapia e permetta quindi di evitarne gli effetti collaterali. Nel sottogruppo genetico più frequente dell’età adulta (leucemia linfoblastica acuta Ph+) i ricercatori hanno dimostrato la possibilità di trattamenti di prima linea (ovvero il primo attacco al tumore) “chemio free”. In pratica si tratta di trattamenti basati non su chemioterapici tradizionali, ma solo sull’uso dei cosiddetti inibitori delle tirosin chinasi diretti verso la lesione genetica. L’idea ora è di controllare ulteriormente la malattia utilizzando anche l’immunoterapia al posto dei trattamenti oggi più comuni per queste patologie come la chemioterapia sistemica e il trapianto di midollo osseo (cellule staminali). In altre parole si tratta di utilizzare le cellule del sistema immunitario del paziente, chiamate Natural Killer (NK), di aumentarne il numero mediante specifiche procedure e di reintrodurle poi nell’organismo perché combattano e distruggano il tumore in quelle persone che hanno mostrato risposta ai trattamenti con gli inibitori delle tirosin chinasi, ma hanno ancora una quota di malattia residua. Sempre con l’intento di ridurre ai minimi termini l’uso della chemioterapia, i ricercatori hanno inoltre ottenuto l’autorizzazione a iniziare uno studio che prevede un trattamento di prima linea (ovvero il primo attacco al tumore) “chemio free” con gli inibitori delle tirosin chinasi come primo passo, seguito da un anticorpo monoclonale diretto quanto meno a controllare, se non a eliminare del tutto, la malattia residua nel paziente. Questi approcci “chemio free” sono di particolare rilievo per pazienti meno giovani che male tollerano la chemioterapia sistemica e il trapianto di midollo.
Tante informazioni da DNA e RNA
Studiare con le più moderne tecnologie disponibili e in dettaglio il materiale genetico delle cellule tumorali per identificare nuove mutazioni che possano aiutare la diagnosi, la prognosi e la scelta della terapia: i ricercatori coinvolti nel programma coordinato da Robin Foà si sono dedicati anche a questo obiettivo sfruttando in particolare la tecnologia WES (Whole exome sequencing). Con queste indagini è stato possibile identificare nelle leucemie linfoblastiche acute alcune mutazioni non note in precedenza e che risultano legate all’esito della malattia. Paragonando poi il DNA delle cellule tumorali al momento della diagnosi con quello al momento della ripresa della malattia dopo un primo trattamento (recidiva), i ricercatori hanno dimostrato che il numero delle mutazioni aumenta alla recidiva rispetto al momento della diagnosi iniziale. Infine, sempre nell’ambito delle leucemie linfoblastiche acute, è stato possibile identificare le mutazioni tipiche di quei tumori che rispondono meno alle terapie o che ritornano dopo poco tempo dal trattamento: queste scoperte sono importanti per progettare nuove strategie terapeutiche basate sulle caratteristiche genetiche. Da non dimenticare che con il metodo WES i ricercatori hanno identificato nuove mutazioni anche in altri tipi di tumori, come per esempio il linfoma di Hodgkin classico e i linfomi periferici a cellule T non diversamente specificati.
Classificare in base ai geni
Non è sempre facile arrivare alla diagnosi precisa di una leucemia o un linfoma. Ci sono infatti casi nei quali le caratteristiche morfologiche, ovvero l’aspetto delle cellule tumorali, non sono in grado di rivelare con certezza tutti i dettagli utili per scegliere la terapia efficace e capire quale tipo di malattia si ha di fronte. In tale contesto potrebbero venire in aiuto i geni come hanno dimostrato i ricercatori coordinati da Robin Foà, studiando a fondo il profilo di espressione dei geni di diversi tumori ematologici difficili da classificare, come per esempio i linfomi periferici a cellule T non diversamente specificati, i linfomi angioimmunoblastici e i linfomi anaplastici a grandi cellule. Utilizzando complicati algoritmi, i ricercatori sono riusciti a mettere a punto un “classificatore genico”, ovvero uno strumento basato proprio sul livello di espressione dei geni nei diversi tumori, capace di distinguere specifici tipi di linfoma. E per verificare che i dati emersi dall’analisi informatica fossero davvero utili nella pratica clinica, il classificatore è stato usato su campioni congelati e campioni conservati in paraffina, in cui si è dimostrato capace di distinguere i diversi tumori con un ottimo grado di accuratezza. Inoltre, approfondendo questi studi, i ricercatori hanno documentato che i classificatori genici possono anche essere utilizzati per predire la prognosi di alcuni tipi di linfoma.
Una malattia, diverse caratteristiche genetiche
La leucemia linfatica cronica, che è la leucemia più frequente nel mondo occidentale, è una malattia dal decorso clinico eterogeneo e assai complessa dal punto di vista genetico. Lo hanno confermato i risultati ottenuti dai ricercatori coinvolti nel programma AIRC e guidati da Robin Foà utilizzando la tecnologia Whole exome sequencing, per identificare le mutazioni presenti nelle diverse fasi della malattia: dalla diagnosi fino alla progressione e alla recidiva. I risultati ottenuti da queste indagini genetiche sono stati poi sfruttati per creare algoritmi per la prognosi, ovvero per riuscire a identificare, sulla base del profilo genetico, quale andamento avrà la malattia. Uno dei risultati più importanti consiste proprio nella dimostrazione che le mutazioni genetiche nella leucemia linfatica cronica si presentano secondo un ordine temporale ben preciso e non si accumulano a caso come invece si potrebbe pensare. Conoscere quest’ordine nel tempo è utile anche per porre diagnosi più accurate e per capire quali terapie utilizzare nei diversi momenti della malattia.
Le ricerche hanno dunque permesso di migliorare la classificazione prognostica dei pazienti con questa patologia e di meglio indirizzare la scelta terapeutica. Ma non è tutto. In base ai dati ottenuti dai ricercatori, è possibile affermare che le cellule di uno stesso tumore possono avere caratteristiche genetiche diverse a seconda del punto dell’organismo dal quale sono state prelevate (sangue, linfonodi, eccetera). Ecco perché prelevare campioni solo da una regione dell’organismo potrebbe in alcuni casi non essere sufficiente a identificare tutte le alterazioni genetiche presenti e utili per la diagnosi, la prognosi e la scelta del trattamento.
Dal laboratorio alla clinica: il viaggio diventa breve
Nel programma coordinato da Robin Foà, i tempi di trasferimento dal laboratorio alla clinica sono assai contenuti. Da questo punto di vista, la leucemia a cellule capellute (hairy cell leukemia) rappresenta senza dubbio l’esempio perfetto di come sia possibile passare dal bancone di laboratorio al letto del malato in tempi relativamente brevi. Grazie a studi molecolari, i ricercatori sono infatti riusciti a identificare la presenza di una mutazione nel gene BRAF – già noto agli esperti perché coinvolto in altri tumori umani – tipica di questo tipo di leucemia e non presente in altre leucemie o nei linfomi a cellule B. Il passo successivo è stata la creazione di uno specifico test capace di riconoscere la mutazione e di portare quindi alla diagnosi genetica della leucemia a cellule capellute. E proprio fino al trattamento dei pazienti sono arrivati i ricercatori sostenuti da AIRC, contribuendo enormemente allo sviluppo della prima terapia a bersaglio molecolare per la leucemia a cellule capellute. In soli quattro anni si è riusciti a identificare una lesione genetica e a trattare i pazienti.
L’unione fa la forza
Sono state centinaia le pubblicazioni scientifiche sulle più importanti riviste internazionali, molti i riconoscimenti dalle principali associazioni medico-scientifiche che si occupano di ematologia e di tumori del sangue, e grandi i traguardi raggiunti nella comprensione dei meccanismi che regolano leucemie e linfomi. Come spiegano i ricercatori, tutto questo non sarebbe stato possibile senza un sostegno certo della durata di cinque anni e senza la stretta collaborazione tra tutte le persone, i laboratori e i centri coinvolti nel programma. Oltre alle numerose scoperte scientifiche che faciliteranno notevolmente il lavoro di medici e ricercatori e aiuteranno i pazienti ad affrontare e vincere la propria battaglia, il programma coordinato da Robin Foà ha contribuito a portare l’ematologia italiana ai vertici della ricerca mondiale e a formare anche una nuova classe di specialisti. Sono i medici/ricercatori, che si muovono con agilità tra il bancone di laboratorio e le corsie degli ospedali soddisfacendo in pieno una delle richieste fondamentali dei programmi sostenuti da AIRC: portare i risultati fino al letto del paziente.