Alla scoperta dei segreti delle malattie mieloproliferative
Piattaforma integrata per studi molecolari e clinici nelle malattie mieloproliferative croniche.
Le malattie mieloproliferative croniche – rappresentate soprattutto da policitemia vera, trombocitemia essenziale e mielofibrosi primaria – sono disturbi ematologici abbastanza comuni, noti ai medici da oltre 60 anni, e in aumento. Nonostante ciò, si tratta di neoplasie ancora in gran parte sconosciute, dal momento che solo ora si comincia a far luce sui meccanismi molecolari che le generano e ne provocano la progressione da forme tumorali di leucemia mieloide acuta ad andamento prevalentemente cronico, a quadri rapidamente fatali. Alessandro Maria Vannucchi, ematologo dell’Università di Firenze, coordina un programma che coinvolge 76 ricercatori riuniti virtualmente nel gruppo AGIMM (AIRC-Gruppo italiano malattie mieloproliferative). Scopo del programma è scoprire i segreti di queste patologie del sangue partendo dal DNA e arrivando fino al letto del paziente, attraverso l’impiego di tecnologie all’avanguardia. Tra i principali obiettivi del programma c’è l’identificazione di nuove mutazioni che potrebbero spiegare la genesi e la progressione delle malattie mieloproliferative croniche, ma anche rappresentare nuovi marcatori utili per la diagnosi o per capire come evolverà la patologia. Ma non basta. Vannucchi e colleghi lavoreranno anche per descrivere le basi molecolari della predisposizione ereditaria allo sviluppo di queste malattie, per spiegare i meccanismi che ne determinano l’aggressività e la diffusione e per sviluppare studi clinici con farmaci innovativi da utilizzare nei pazienti. Ed è chiaro che per raggiungere traguardi così ambiziosi serve la piena collaborazione di un’equipe multidisciplinare: il gruppo impegnato nel programma comprende infatti ricercatori di base che lavorano al bancone del laboratorio, ematologi che si confrontano quotidianamente con i pazienti e con gli aspetti clinici della malattia e bioinformatici, indispensabili con i loro software per interpretare e organizzare al meglio i risultati delle ricerche.
Un nuovo protagonista per la diagnosi
La diagnosi, in particolare quella precoce, delle malattie mieloproliferative croniche non è semplice ed è cambiata radicalmente negli ultimi dieci anni grazie alla scoperta di marcatori molecolari che permettono oggi di classificare meglio queste patologie. La vera svolta è arrivata nel 2005, quando è stata scoperta la mutazione nel gene JAK2, che risultava presente in molti pazienti con malattie mieloproliferative: circa il 95 per cento di quelli con policitemia vera e circa il 60 per cento di quelli con la trombocitemia essenziale e con mielofibrosi. Restavano quindi fuori dalla classificazione alcuni pazienti (30 per cento circa) che risultavano essere “sconosciuti” dal punto di vista molecolare, cioè che avevano la malattia non classificabile in base alle caratteristiche del DNA. Nel loro tentativo di caratterizzare meglio le mutazioni del DNA in queste malattie, i ricercatori coinvolti nel programma sono riusciti a identificare una nuova mutazione in un gene chiamato calreticulina: questa informazione permette di caratterizzare meglio quel 30 per cento di pazienti ancora “sconosciuti” sotto l’aspetto molecolare. La ricaduta diagnostica è senza dubbio molto importante tanto che, nelle nuove linee guida in pubblicazione nel 2016, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha deciso di includere tra i criteri per la diagnosi delle malattie mieloproliferative croniche anche la mutazione nel gene della calreticulina.
Indizi molecolari per conoscere la prognosi
La scoperta della presenza di una mutazione nel gene della calreticulina ha permesso di compiere passi avanti anche nella conoscenza della prognosi dei pazienti con malattie mieloproliferative: soprattutto nel caso della mielofibrosi, ma anche per la trombocitemia essenziale, è possibile oggi identificare categorie di pazienti che sono a rischio più elevato. Un rischio che per la trombocitemia è soprattutto di tipo vascolare (trombosi) e di evoluzione della malattia in una forma di mielofibrosi secondaria o di leucemia vera a propria, mentre per la mielofibrosi può essere rappresentato da una durata di vita più corta.
Come spiegano i ricercatori coordinati da Vannucchi, l’analisi molecolare del gene per la calreticulina ha permesso di dividere i pazienti in diversi gruppi. Oggi sappiamo infatti che quelli con mielofibrosi e mutazione nella calreticulina hanno la prognosi migliore, mentre se c’è la mutazione in JAK2 oppure non ci sono mutazioni note, la prognosi è peggiore. Tutto ciò ha una ricaduta pratica immediata poiché aiuta a scegliere le terapie più adatte per ciascun paziente.
Ma quella del gene per la calreticulina non è certo l’unica mutazione presente in queste malattie: ce ne sono molte che i ricercatori stanno studiando per comprenderne il significato clinico e biologico. Con questo approccio è stato già individuato un gruppo di 5 geni che, se mutati, identifica i pazienti con mielofibrosi che hanno minore sopravvivenza e il maggior rischio di trasformazione in leucemia. Un altro passo verso la terapia personalizzata che prevede una classificazione dei pazienti in base al profilo molecolare.
Ritratti di famiglia e fotografie molecolari
Esistono geni che mettono in luce una certa predisposizione a sviluppare malattie mieloproliferative croniche. Lo hanno scoperto i ricercatori coordinati da Vannucchi, grazie a studi dedicati a definire i quadri familiari di queste patologie. Questi geni, come spiegano i ricercatori, rappresentano un primo passo per cominciare a costruire collegamenti tra predisposizione genetica e sviluppo della malattia, e un passo avanti per comprendere meglio i meccanismi molecolari che determinano tali patologie.
Ma il “ritratto di famiglia” da solo non basta. Grande energia è stata anche dedicata allo studio dell’espressione dei geni nelle cellule più immature della malattia – le staminali – per cercare di comprendere meglio i meccanismi cellulari all’origine del problema. Confrontando i livelli dei geni espressi nelle cellule di pazienti malati con quelli espressi da cellule sane, è stato possibile identificare un gruppo di geni espressi in maniera anomala nella malattia. I risultati sono stati verificati sia in vitro nelle cellule, sia in vivo in modelli animali ed è stata creata una grande banca dati dalla quale si pensa di poter proseguire gli studi sui meccanismi molecolari, alla ricerca magari di nuovi bersagli per farmaci intelligenti.
Farmaci nuovi e sempre più precisi
Attualmente la terapia per le malattie mieloproliferative è rappresentata dal trapianto, che però si rivela adatto solo a poche persone e solo nel caso di mielofibrosi, oppure da trattamenti palliativi a base di farmaci chemioterapici che servono a controllare la malattia e a “limitare i danni”. Ecco perché uno dei filoni di ricerca del programma coordinato da Alessandro Vannucchi punta sull’identificazione di molecole nuove, più efficienti e meno tossiche rispetto a quelle attuali. Come spiegano gli esperti, la grande rivoluzione nel trattamento di queste patologie è arrivata grazie all’introduzione di terapie mirate contro JAK2, costituite da inibitori che riescono a bloccare l’attività della proteina JAK2. I ricercatori del gruppo AGIMM (AIRC-Gruppo italiano malattie mieloproliferative) hanno contribuito in modo importante allo sviluppo di questi inibitori, partecipando a studi prima sulla mielofibrosi e, più recentemente, anche sulla policitemia vera, nei quali si sono occupati anche di tutta la valutazione e lo studio degli aspetti molecolari. Così facendo, è stato possibile ottenere informazioni ampie e precise sull’impatto di uno specifico farmaco e anche sulla possibilità di prevedere la risposta alla terapia: nella mielofibrosi, per esempio, è stato dimostrato che il farmaco produce un beneficio indipendentemente dalle caratteristiche molecolari della malattia, risultando efficace anche nelle persone ad alto rischio dal punto di vista dei geni mutati.
Il sangue alla base del benessere del paziente
Le due facce del programma – la ricerca di alterazioni biologiche o funzionali e il trasferimento dei risultati al letto del paziente – sono molto ben esemplificate in un lavoro che ha permesso di fare chiarezza sul rapporto tra valore dell’ematocrito (un parametro che indica la densità del sangue) nei pazienti con policitemia vera e il rischio di problemi vascolari, come la formazione di coaguli (trombi) potenzialmente fatali. I pazienti che soffrono di policitemia vera presentano valori di ematocrito più alti, ovvero hanno un sangue più denso che li mette a rischio di trombosi, e quindi anche di ictus e infarto. Il lavoro dei ricercatori coordinati da Vannucchi ha permesso di fissare un valore massimo di ematocrito al 45%, da non superare per mettere al riparo da problemi cardiovascolari le persone affette da policitemia vera.
Mantenere un ematocrito inferiore al 45% riduce di ben quattro volte il rischio di trombosi rispetto a quando il livello resta sopra tale soglia. L’importanza della scoperta ha avuto una ricaduta immediata sulla pratica clinica: se prima il limite era fissato al 50%, oggi le linee guida concordano nell’indicare il 45% come valore di ematocrito massimo per un paziente con policitemia vera. La notizia positiva è che, anche se per mantenere un livello di ematocrito più basso i trattamenti devono essere più intensivi, non aumentano gli effetti collaterali più pericolosi, come per esempio, la trasformazione in leucemia.
Anche l’ambiente è importante
Per comprendere meglio i meccanismi cellulari alla base delle malattie mieloproliferative, i ricercatori stanno lavorando anche su tipi di cellule diverse da quelle della malattia: le cellule dell’ambiente circostante che – ormai è piuttosto chiaro – sono estremamente importanti nel determinare lo sviluppo e l’evoluzione di queste patologie. In particolare l’attenzione degli esperti coordinati da Vannucchi è focalizzata sulle cellule endoteliali, quelle che rivestono la parete dei vasi, per capire se esse stesse possono essere tra le prime promotrici della malattia oppure no. Altre cellule tenute sotto stretta sorveglianza sono quelle dello stroma midollare, responsabili, per esempio, della produzione di molecole o recettori alterati che possono influenzare l’andamento della malattia. In effetti, come spiegano i ricercatori, nelle malattie mieloproliferative c’è una forte componente infiammatoria e dal momento che l’infiammazione è influenzata dallo stroma e dal microambiente che circonda le cellule tumorali, non è difficile comprendere l’importanza di questa parte dello studio.
Un gruppo affiatato di esperti e pazienti
Uno dei grandi successi ottenuti dal programma coordinato da Alessandro Vannucchi è senza dubbio la creazione di una rete di persone legate tra loro da interessi e obiettivi comuni, coinvolte a diverso livello nello studio delle malattie mieloproliferative. All’interno del network che si è creato grazie al programma, i gruppi di ricerca sono rimasti molto uniti pur mantenendo ciascuno le proprie individualità, tanto da continuare a riportare nelle loro pubblicazioni il logo AGIMM (AIRC-Gruppo italiano malattie mieloproliferative), come motore principale delle ricerche. Inoltre, sin dall’inizio del progetto, si è pensato a come arrivare al paziente e a questo scopo è stato creato un sito web , grazie al quale i ricercatori coinvolti hanno modo di interagire tra loro. Il sito è stato aperto anche ai pazienti per fornire informazioni sulle malattie e mettere a disposizione una sorta di “chat” nella quale gli esperti rispondono alle domande. Il continuo dialogo tra i diversi protagonisti ha rappresentato lo stimolo per organizzare, per la prima volta in Italia, la “Giornata fiorentina” per chi soffre di malattie mieloproliferative che ora è giunta alla sesta edizione e che richiama centinaia di persone. Nel corso di queste giornate, medici e ricercatori del progetto AGIMM riescono dimostrare ai pazienti l’interesse nei loro confronti e i pazienti, a loro volta, aiutano gli esperti fornendo spunti nuovi sui quali riflettere e lavorare.