Il sistema immunitario come arma contro il tumore
Immunità innata nel cancro: bersagli molecolari e terapia genica.
Cellule killer (NK) e macrofagi sono componenti chiave della cosiddetta immunità innata, la prima linea di resistenza che il sistema immunitario mette in campo per contrastare i microrganismi patogeni e per orientare e attivare le risposte di difesa successive. Ma l’immunità innata ha un ruolo di primo piano anche nella lotta contro i tumori, tanto che la malattia progredisce mettendo a soqquadro questi meccanismi di difesa. Lo sanno bene Alberto Mantovani, della Humanitas University e direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano alle porte di Milano, e i 90 ricercatori che con lui collaborano a un programma di ricerca che punta a tradurre questi meccanismi immunitari in strumenti di diagnosi, prognosi e terapia per i pazienti, partendo dallo studio dei tumori del sangue per arrivare anche ad altre forme di cancro.
I protagonisti della ricerca di Mantovani e colleghi sono soprattutto le cellule NK, che i ricercatori vogliono “educare” per attaccare in modo specifico le cellule tumorali, anche identificando nuove molecole bersaglio. L’altro cruciale protagonista è la molecola PTX3, coinvolta tra l’altro anche nell’infiammazione legata al cancro e nel contrastare alcune infezioni fungine, spesso associate ai tumori e particolarmente pericolose per i pazienti. Infine, è inclusa nel programma anche la creazione di specifici anticorpi monoclonali da valutare sia in modelli sperimentali sia in studi clinici negli esseri umani.
Con PTX3 i funghi fanno meno paura
La pentraxina 3 (PTX3) è una molecola dell’immunità innata scoperta proprio dai ricercatori coordinati da Alberto Mantovani che stanno ora percorrendo l’ultimo tratto di una strada che li ha portati dalla scoperta del gene fino al suo sfruttamento al letto del paziente. Come spiegano i ricercatori, si tratta di un antenato funzionale degli anticorpi, essenziale per la resistenza ad alcuni microrganismi, in particolare per la resistenza a microrganismi come il fungo Aspergillus fumigatus che rappresenta un vero problema per i malati di cancro. Dopo il trapianto di midollo, i pazienti rischiano di andare incontro a gravi problemi per colpa dell’infezione (aspergillosi) causata dal fungo. Con il loro lavoro, i ricercatori hanno dimostrato che le caratteristiche genetiche di PTX3 possono essere utilizzate dal punto di vista diagnostico per capire chi è più a rischio di contrarre l’infezione da aspergillo. Con questa sorta di campanello di allarme, il medico può dunque decidere di tenere sotto controllo più stretto il paziente. Ma PTX può essere utilizzato anche a livello terapeutico: se la molecola è carente i pazienti sono più sensibili all’infezione; di conseguenza, reintrodurla potrebbe rappresentare un’arma vincente per rinforzare le difese contro il fungo. È importante sottolineare che tutti questi risultati sono stati confermati anche a livello internazionale dal Gruppo svizzero per il trapianto d’organo, che ha verificato la validità delle scoperte in un gruppo di oltre 1.000 pazienti sottoposti a trapianto.
Le mille virtù di PTX3
PTX3 non è attiva solo contro le infezioni fungine. Lo hanno chiarito i ricercatori che, nel corso di questo programma, hanno voluto anche verificare se la molecola fosse in grado di influenzare lo sviluppo e la progressione del tumore. Gli studi hanno rivelato che PTX3 è un oncosoppressore estrinseco, cioè un gene che è in grado di tenere a bada il cancro grazie alla sua azione di regolazione della risposta infiammatoria. Questo ruolo di PTX3 è stato osservato prima in laboratorio, sia in cellule sia in modelli animali, e poi anche nell’uomo dove si vede che il gene è “silenziato” – come se ci fosse un interruttore che lo mantiene spento – in diversi tumori, come quello del colon o il leiomiosarcoma e nei tumori dell’esofago. Il ruolo di PTX3 nel cancro rappresenta per i ricercatori un’ulteriore spinta a continuare con la sperimentazione di questa molecola e in effetti si sta ora lavorando per mettere a punto tutto ciò che serve per dare il via a studi nell’uomo: preparazione delle molecole adatte, studi per valutare gli eventuali effetti tossici e molto altro ancora, tenendo presente che PTX3 è una molecola grossa e complessa, piuttosto diversa da quelle entrate finora in clinica.
Infine, ma non certo meno importante, i ricercatori hanno dimostrato che le caratteristiche di PTX3 sono legate anche alla maggiore o minore predisposizione a sviluppare la malattia GVHD (una reazione del trapianto contro l’ospite) e anche alla gravità della patologia.
Si può togliere il freno alle cellule killer
Nell’ambito della parte più molecolare del programma, i ricercatori hanno focalizzato la propria attenzione anche su particolari recettori presenti sulle cellule NK, cellule del sistema immunitario chiamate Natural Killer, che intervengono tra l’altro anche con un effetto anti-leucemia nei pazienti che ricevono un trapianto di midollo a causa di questo tumore del sangue. In effetti, quando si procede con un trapianto, le nuove cellule non solo ricostituiscono il midollo di chi le riceve, ma possono anche attaccare le cellule leucemiche in una risposta che viene definita “trapianto versus tumore”. Il lavoro svolto nel corso del programma ha dimostrato che è possibile ottimizzare le differenze molecolari tra donatore e ricevente in modo che ci sia una incompatibilità nei recettori chiamati KIR che fa sì che il trapianto reagisca contro la leucemia. Per dirla in altri termini, come tutte le cellule dell’immunità, anche le cellule NK hanno acceleratori e freni, alcuni dei quali scoperti proprio in Italia. Nel contesto del trapianto di midollo è utile fare in modo che le cellule NK non tirino i freni quando incontrano una cellula tumorale, anzi la aggrediscano, e questo traguardo può essere raggiunto agendo a livello molecolare sui recettori KIR. Sono state quindi sviluppate strategie per cercare di individuare donatori nei quali le cellule NK non vengono frenate dalle cellule tumorali e, anzi, le attacchino con forza.
Un esercito di cellule ben addestrate e dotate di armi speciali
Una parte molto importante del programma coordinato da Alberto Mantovani riguarda le terapie cellulari rappresentate, in particolare, dall’utilizzo di cellule dell’immunità innata per contrastare il tumore. Ma non basta prendere le cellule immunitarie e usarle così come sono. Prima che possano scendere in campo contro i tumori del sangue, i ricercatori hanno dovuto addestrare l’esercito cellulare – formato da cellule chiamate CIK – trasformandolo in una squadra di veri e propri super-killer da trasferire poi nei pazienti. I primi risultati in clinica ci sono già e sono molto promettenti: è stata dimostrata l’attività soprattutto nei linfomi e ora si sta procedendo con la sperimentazione. E non è tutto. In una parte della ricerca, che si potrebbe definire più avveniristica, i ricercatori stanno mettendo a punto una forma di terapia cellulare costituita da cellule T del sistema immunitario nelle quali è stato modificato un recettore, per renderle ancora più efficaci nella loro battaglia contro i tumori. È stata quindi sviluppata una tecnologia che permette di generare appositamente recettori modificati – detti anche “chimerici” (CAR) – che si spera di riuscire a portare presto in clinica, innanzitutto contro le leucemie e poi magari anche contro i tumori solidi.
Risultati promettenti anche nei bambini
La leucemia linfoblastica acuta è un tumore del sangue che colpisce soprattutto i più piccoli e rappresenta infatti la neoplasia più frequente in età pediatrica (80% delle leucemie e 25% circa di tutti i tumori tra 0 e 14 anni). Anche su questa patologia hanno lavorato i ricercatori coordinati da Alberto Mantovani, concentrandosi soprattutto sull’utilizzo di alcune cellule killer (Natural Killer, NK) con progetti che sono già arrivati alla clinica. Come spiegano i ricercatori, questo tipo di leucemia viene curata nel 90% dei casi grazie al trapianto di midollo, ma resta un 10% di bambini che non risponde in modo positivo ai trattamenti. Ed è proprio in questa percentuale piccola ma importante di bambini che l’approccio basato sulla terapia cellulare con cellule NK sembra dare i risultati migliori, generando risposte a dir poco promettenti anche se ancora preliminari. La sperimentazione è ancora in corso.